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Siamo Alessandra e Marta e ci siamo conosciute circa tre anni fa all’aeroporto di Bologna, dove lavoriamo insieme. Prima ancora di essere colleghe ci siamo sentite amiche, riuscendo ad instaurare fin da subito un solido legame di simpatia e complicità, con interessi da condividere e coltivare insieme. Abbiamo sperimentato i buoni propositi della bell’amicizia attraverso un primo viaggio insieme, tra la Cambogia e il Laos e ci siamo rese conto che, su tutto, ciò che alimentava maggiormente questo rapporto era proprio la curiosità della scoperta del mondo, carico di piccoli tesori ma abituato a tenere molto, troppo per sé. 

Abbiamo quindi deciso di guardarci intorno cambiando punto di vista. Approfittando del soggiorno per il servizio civile di Luigi (fratello di Alessandra), nel ottobre del 2018 siamo partite alla volta della Tanzania, convinte che persone amiche avrebbero reso questo viaggio una vera e propria esperienza. E così è stato. 

Abbiamo raggiunto il distretto di Mkuranga, tra i villaggi di Mavunja e Kisiju, a circa 100 km da Dar es Salaam, la capitale. Era lì che Luigi, in qualità di ingegnere, stava gestendo i lavori di restauro di un vecchio pozzo inutilizzato, con l’obbiettivo di sostituirlo e garantire di conseguenza ai villaggi una fonte d’acqua pulita e potabile. Non troppo distante dal sito di ristrutturazione della via idrica, infatti, si trova un ospedale dalle modeste dimensioni, il “Nyota ya Bahari Health Center”, dignitosamente gestito da una missione di suore dedite alla cura e al recupero di fondi necessari per il mantenimento e il supporto delle persone.

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Siamo quindi entrate nell’edificio, poi nella sala adibita alla gerenza delle nascite, con madri e rispettivi neonati. Siamo state colpite dai molti bambini, alcuni sani e pronti a crescere, altri no. In particolare ci ha segnato un bebè nato il giorno prima che, a causa di una compressione dei nervi della spalla, non potrà mai utilizzare il braccio destro - una condizione facilmente evitabile con i mezzi necessari. Ci siamo rese conto che in un paese del terzo mondo questo è un tipo di condizione quasi accettata, perfettamente in linea con l’idea comune della vita. È qualcosa che può capitare, insomma. La gestione dei parti è fatta concedendosi alla fortuna e alla base c’è la totale incompetenza nell’utilizzo dei macchinari a disposizione. Ci hanno raccontato che hanno a disposizione un ecografo ma che nessuno è in grado di saperlo utilizzare. 

Ci siamo sentite turbate, quasi in colpa per non aver mai avuto nemmeno la preoccupazione che qualcosa del genere potesse succedere nel nostro di mondo, quello moderno e all’avanguardia. In quel momento è nata l’idea di contribuire ad un miglioramento e questo è stato il primo giorno del progetto “Domani farà bello”.

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